Dall’antica dea Angizia alla festa odierna di San Domenico a Cocullo: il rito dei serpari attraversa i secoli.

 

 

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Un santo che esce dalla propria chiesa completamente avvolto di serpenti tra il crepitio degli applausi e le urla dei fedeli in massa, accalcati sotto il sole: una visione che sconvolse nei secoli, divenne persino oggetto di scandalo, eppure non spense mai la curiosità di fedeli e semplici spettatori che ogni anno, a maggio, si riversano a Cocullo per assistere a quella che sembra essere una delle ultime reliquie viventi di un mondo che non esiste più. Il passato che abbraccia il presente per raccontare la storia di una terra che vive di memoria e non rinuncia a nulla di se stessa, piuttosto assorbe e riutilizza i propri simboli, resistendo ad ogni tentativo esterno di costrizione, persino di censura.

L’Abruzzo nasconde bellezze naturalistiche ad ogni passo e questo lo sanno in molti. Tanti ancora non sanno, però, che questa terra magica è stata anche in grado, nel tempo, di raccogliere l’eredità dei popoli che l’hanno abitata senza perdere la suggestione di gesti antichi e riti che non sarebbero stati conservati altrimenti. La storia della festa dei serpari, che raccoglie migliaia di persone da ogni luogo del mondo nella piccolissima Cocullo, infatti, sembra avere ben poco del rigore medievale della Chiesa cattolica. L’idea che un’immagine sacra, una statua venerata, venisse letteralmente assalita da animali ritenuti ambigui e simbolo di tentazione persino nelle Sacre Scritture non permetteva sonni tranquilli per chi, in Vaticano, aveva il compito di tutelare sulla morale e sull’ordine della dottrina. Come potevano conciliarsi, dunque, delle serpi in chiesa, portate in processione e poi uccise sul sagrato, con il portamento remissivo del timido frate umbro che intorno all’anno mille arrivò in Abruzzo e si trattenne a Cocullo in ritiro quasi monastico? All’occhio attento di un qualuque uomo di chiesa di un altro secolo sarebbe sembrata un’eresia. Eppure nulla, neppure l’evidenza, riuscì a cancellare un rito talmente amato da mantenersi per lo più intatto fino ai giorni nostri. Dovremmo dunque chiederci: come è stato possibile? Cosa può aver risolto l’eterno conflitto tra il serpente e le scritture, avvicinadolo a tal punto al divino da permettere un contatto diretto dell’animale col Santo? Ed infine: perchè San Domenico non può più, oggi come oggi, fare a meno delle serpi nel giorno a lui dedicato?

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Ogni risposta utile a queste domande va ricercata nella capacità, come dicevamo, tutta abruzzese di coltivare e mantere vivi nei secoli usi e costumi, anche antichissimi, concedendo loro una seconda vita anche quando le circostanze storiche ne decreterebbero la fine. In questo modo la tradizione dei serpari, nata e cresciuta in seno al paganesimo, sopravvive al paganesimo stesso dopo la sua definitiva estinzione, arrivando ad essere accolta in seno alla Chiesa in modo apparentemente naturale, quasi fosse un’eredità scontata, come poche volte siamo abituati a vedere. Sappiamo infatti dagli storici romani, come Plinio il Vecchio, e dai grandi letterati, come Virgilio stesso, che l’area appenninica popolata dagli antichi Marsi era interessata dal culto della dea Angizia,

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esperta di arti occulte come le sue mitiche sorelle, Circe e Medea, guaritrice abile e incantatrice di serpenti. Per venerarla, il popolo cui lei stessa, si dice, avrebbe trasmesso le capacità di cui andava fiera, ne portava in processione la statua e con essa le serpi catturate nella zona. Questa sorta di processione propiziatoria si consumava a primavera inoltrata, perchè la dea dei Marsi era anche una divinità legata ai culti della fertilità e per questo veniva celebrata nella stagione della rinascita della natura, dopo la lunga notte invernale. I serpenti poi, di cui lei si diceva conoscitrice prima, in grado non solo di renderli mansueti, ma anche e soprattutto di renderne innocui morso e veleno, venivano uccisi al termine della processione, esattamente come avveniva, ma fortunatamente non avviene più, per la festa del Santo oggi, a Cocullo. I punti di contatti, come appare evidente, tra le due liturgie sono moltissimi e appare evidente che le montagne stesse, con la naturale propensione al contenimento, abbiano, insieme al patrimonio umano di queste terre, da sempre particolarmente legato alla propria identità, contribuito a riversare l’antico nel nuovo culto di San Domenico, odierno volto del culto pagano della dea dei Marsi. A chi abbia nel tempo voluto obiettare che Cocullo fosse troppo lontano dal cuore del culto di Angizia, venerata prevalentemente sulle rive del lago del Fucino, va ricordato che la zona è comunque stata interessata da un’altra figura mitica, ugualmente vicina alla simbologia del serpente: il divino Ercole.

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Figlio di Giove e di una delle sue più famose fughe amorose, quella con la splendida Alcmena, rischiò la vita appena nato quando Giunone, feroce di gelosia, tentò di ucciderlo nascondendo nella sua culla due enormi serpenti velenosi. Leggenda vuole però che il bambino, incredibilmente, riuscisse ad ucciderli entrambi, soffocandoli con la sola stretta dei pugni, alzandosi in piedi dal piccolo giaciglio. Di statue dell’eroe, possiamo starne certi, è disseminata l’intera marsica, Cocullo compreso, la cui area, per la verità, risulta piuttosto periferica rispetto al resto della zona.

Compresi i perchè di questa bizzarra tradizione, non ci rimane che ammirare l’abile capacità di quei serpari, giovani o vecchi, donne o uomini che siano, che trascorrono le settimane prima del giorno della festa raccogliendo i propri esemplari di serpenti locali, il Cervone, il Biacco, la Biscia dal Collare, del tutto innocui per l’uomo, per custodirli, offrirgli cibo e prepararli alla festa che ora trova la sua data fissa il primo di ogni maggio. Per tutta la giornata i serpenti, in compagnia dei propri serpari, si offrono volentieri al pubblico curioso, che cerca un contatto ravvicinato unico nel suo genere. Durante la processione, poi, accompagnano il Santo per le vie del paese, quasi conoscessero, a loro modo, ruolo e modalità. A fine giornata ogni serparo riprende i serpenti, riconoscendo i propri esemplari da segni di smalto impercettibili sulla loro pelle, per riportarli esattamente dove li avevano trovati, in natura. La festa così si chiude ogni anno a notte inoltrata, con fiumi di curiosi che lasciano il piccolo borgo che, per un giorno soltanto, sembra far rivivere, come una magica porta temporale, quella che per secoli è stata una delle più antiche tradizioni misteriche del nostro paese.

 

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